giovedì 17 dicembre 2020

Il contagio di un'idea di salute

“Una società industriale avanzata genera malattia perché rende gli uomini incapaci di controllare il proprio ambiente e, quando essi crollano, sostituisce una protesi «clinica» alle relazioni spezzate. Contro un simile ambiente gli uomini si ribellerebbero se la medicina non spiegasse il loro scombussolamento biologico come un difetto della loro salute, invece che come un difetto del modo di vivere che viene loro imposto (…). L’assicurazione di personale innocenza politica che la diagnosi offre al paziente serve come una mascherina igienica che giustifica un ulteriore asservimento alla produzione e al consumo.” (Ivan Illich, Nemesi medica, p. 174-175)


 In parallelo ai processi di esproprio dei mezzi di salute e di statalizzazione e tecnicizzazione della medicina, l’origine della malattia si sposta sempre più verso l’interno dell’individuo: da esito di una certa configurazione ecologica e sociale (e parte ineludibile dell’umana finitudine), la malattia diventa un disfunzionamento privato, una falla nel funzionamento interno – meccanico, chimico, psichico – del soggetto, da affidare alle competenze certificate di un professionista e alla mano provvidenziale dello Stato. La morte stessa si fa impensabile: il soggetto della modernità ne è terrorizzato perché essa annulla il solo senso esistenziale possibile, quella della sopravvivenza individuale, del dominio sulle cose e del godimento; anch’essa, dunque, è stata progressivamente sottratta alla lavorazione culturale collettiva e affidata alle cure degli specialisti.



Riletto oggi, Nemesi medica di Ivan Illich fa l’effetto di una doccia scozzese: dapprima sollievo («finalmente qualcuno che mette in fila le cose!»); poi una serie di grattate dolorose alla sensibilità corrente (ad esempio le notazioni sulla patogenicità del sistema medico); e infine una sorta di vertigine quando ci si accorge che, a metà degli anni Settanta, concetti che oggi suscitano scandalo erano moneta corrente. La sua lezione più importante si può forse riassumere così: nessun punto della “macchina”, per quanto marginale, può essere cambiato senza modificare il sistema nel suo complesso. Da quanto tempo non si sentiva niente del genere…

Il neoliberismo ha portato un’eclissi durevole dei guadagni teorici dei due decenni precedenti e reso quasi inascoltabili le parole di quell’epoca. E, soprattutto, ha parcellizzato e individualizzato processi e relazioni fino a polverizzare gli sguardi e le possibilità critiche: anche presso i soggetti più attenti, capaci di cogliere le storture e disposti a lottare per questa o quella causa, il quadro d’insieme risultava spesso inafferrabile.

Ora l’«evento-covid» arriva a sollevare il velo e rimette sotto gli occhi di tutti la profonda discrasia sistemica in cui viviamo – discrasia che non è stata causata dal virus: era già lì, ma non riuscivamo più a coglierla. La si può descrivere come la distanza che intercorre fra le esigenze del capitale e quelle degli umani (e degli altri viventi, e della terra). Il nostro mondo è ben organizzato secondo una logica di massimizzazione del profitto che mette tutto a servizio del plusvalore e si traveste, in circostanze ordinarie, da migliore dei mondi possibili. Finché le cose più o meno funzionano come ci aspettiamo, è difficile rendersi conto della qualità non-umana del suo assetto. È in circostanze non ordinarie, quando la logica umana di cura e solidarietà non può più essere aggirata, che ci si accorge di essere intrappolati nel letto di Procuste della logica del profitto, vincolati a una macchina che, dal punto di vista dell’umana esistenza, è completamente illogica. La logicità del sistema rispetto al profitto, e la sua illogicità rispetto alla vita, spiega la contraddittorietà del panorama che abbiamo di fronte ed è ciò che dobbiamo portare a tema in tutte le circostanze possibili.

Tratto da "Come siamo arrivati fin qui" di Stefania Consigliere e Cristina Zavaroni

https://www.wumingfoundation.com/giap/2020/12/come-siamo-arrivati-fin-qui/