giovedì 17 dicembre 2020

Il contagio di un'idea di salute

“Una società industriale avanzata genera malattia perché rende gli uomini incapaci di controllare il proprio ambiente e, quando essi crollano, sostituisce una protesi «clinica» alle relazioni spezzate. Contro un simile ambiente gli uomini si ribellerebbero se la medicina non spiegasse il loro scombussolamento biologico come un difetto della loro salute, invece che come un difetto del modo di vivere che viene loro imposto (…). L’assicurazione di personale innocenza politica che la diagnosi offre al paziente serve come una mascherina igienica che giustifica un ulteriore asservimento alla produzione e al consumo.” (Ivan Illich, Nemesi medica, p. 174-175)


 In parallelo ai processi di esproprio dei mezzi di salute e di statalizzazione e tecnicizzazione della medicina, l’origine della malattia si sposta sempre più verso l’interno dell’individuo: da esito di una certa configurazione ecologica e sociale (e parte ineludibile dell’umana finitudine), la malattia diventa un disfunzionamento privato, una falla nel funzionamento interno – meccanico, chimico, psichico – del soggetto, da affidare alle competenze certificate di un professionista e alla mano provvidenziale dello Stato. La morte stessa si fa impensabile: il soggetto della modernità ne è terrorizzato perché essa annulla il solo senso esistenziale possibile, quella della sopravvivenza individuale, del dominio sulle cose e del godimento; anch’essa, dunque, è stata progressivamente sottratta alla lavorazione culturale collettiva e affidata alle cure degli specialisti.



Riletto oggi, Nemesi medica di Ivan Illich fa l’effetto di una doccia scozzese: dapprima sollievo («finalmente qualcuno che mette in fila le cose!»); poi una serie di grattate dolorose alla sensibilità corrente (ad esempio le notazioni sulla patogenicità del sistema medico); e infine una sorta di vertigine quando ci si accorge che, a metà degli anni Settanta, concetti che oggi suscitano scandalo erano moneta corrente. La sua lezione più importante si può forse riassumere così: nessun punto della “macchina”, per quanto marginale, può essere cambiato senza modificare il sistema nel suo complesso. Da quanto tempo non si sentiva niente del genere…

Il neoliberismo ha portato un’eclissi durevole dei guadagni teorici dei due decenni precedenti e reso quasi inascoltabili le parole di quell’epoca. E, soprattutto, ha parcellizzato e individualizzato processi e relazioni fino a polverizzare gli sguardi e le possibilità critiche: anche presso i soggetti più attenti, capaci di cogliere le storture e disposti a lottare per questa o quella causa, il quadro d’insieme risultava spesso inafferrabile.

Ora l’«evento-covid» arriva a sollevare il velo e rimette sotto gli occhi di tutti la profonda discrasia sistemica in cui viviamo – discrasia che non è stata causata dal virus: era già lì, ma non riuscivamo più a coglierla. La si può descrivere come la distanza che intercorre fra le esigenze del capitale e quelle degli umani (e degli altri viventi, e della terra). Il nostro mondo è ben organizzato secondo una logica di massimizzazione del profitto che mette tutto a servizio del plusvalore e si traveste, in circostanze ordinarie, da migliore dei mondi possibili. Finché le cose più o meno funzionano come ci aspettiamo, è difficile rendersi conto della qualità non-umana del suo assetto. È in circostanze non ordinarie, quando la logica umana di cura e solidarietà non può più essere aggirata, che ci si accorge di essere intrappolati nel letto di Procuste della logica del profitto, vincolati a una macchina che, dal punto di vista dell’umana esistenza, è completamente illogica. La logicità del sistema rispetto al profitto, e la sua illogicità rispetto alla vita, spiega la contraddittorietà del panorama che abbiamo di fronte ed è ciò che dobbiamo portare a tema in tutte le circostanze possibili.

Tratto da "Come siamo arrivati fin qui" di Stefania Consigliere e Cristina Zavaroni

https://www.wumingfoundation.com/giap/2020/12/come-siamo-arrivati-fin-qui/

sabato 21 novembre 2020

Giovanni Lindo Ferretti. Non Invano.

 


Fuma ancora?
Certo. La mia mascherina è la coltre di fumo che c’è tra me e il mondo.
Quando, una ventina d’anni fa, il tabagista Giovanni Lindo Ferretti fu operato di tumore alla pleura i polmoni erano sani come quelli di un bambino. «Adesso come allora il mio problema è la mia salvezza». Parole da perfetto reazionario. «Non può farmi complimento migliore». Ecco Ferretti: pronto ai paradossi e a capovolgere problemi e soluzioni. Sessantasette anni, fondatore dei Cccp – Fedeli alla linea, primo gruppo punk italiano poi evoluto nei Csi (Consorzio suonatori indipendenti) e nei Pgr (Per grazia ricevuta). Uno che aveva la cresta rossa e girava in minigonna e stivali militari. Che è tornato a casa, al cristianesimo, vive a Cerreto Alpi, un borgo incastonato nell’Appennino emiliano che declina verso la Toscana. Settanta anime, bar alimentari circolo ricreativo, chiesa, cimitero, stalle. Un posto dove il tempo si è fermato. Come si vede in Ora, il video da poco pubblicato su YouTube.
La sua vita è cambiata da quando si è diffuso il morbo?
Non granché. Anzi, nella quotidianità non è successo proprio nulla. Sono cambiati i pensieri. Quando si arriva qui, di solito, si resta colpiti dal silenzio ma ora il silenzio si è fatto così acuto che ci ha rintronati.
Racconti.
Pensavamo anche noi che quello di prima fosse silenzio ma nella valle c’è una strada statale, il cielo era attraversato dagli aerei e ci spostavamo in macchina. Adesso siamo tutti fermi, camminiamo lenti e i pensieri rimbombano.
Il primo qual è?
Negli ultimi anni, per liberarmi da un eccesso di inviti, proposte, aspiravo agli arresti domiciliari. Troppa grazia: ci siamo finiti tutti, abbiamo consegnato la nostra libertà in cambio di una promessa medico scientifica di sicurezza. È il segno che abbiamo valutato male molte cose.
Tipo?
La libertà di spostamento. La riavremo in cambio della tracciabilità? Sarà un potere tecnico-scientifico con finalità etico-morali la soluzione dei nostri problemi?
È uno stato di emergenza.
Niente come l’emergenziale apre al possibile, al consuetudinario. Non ho soluzioni, pongo domande.
Non crede che ciò che sta succedendo possa portare svolte positive?
Non vedo come, mobilità e socialità sono comportamenti improvvisamente divenuti pericolosi. Parlando da qui: i borghi di montagna e le terre alte hanno un’economia ridotta a turismo. Mi permetto di ricordare che quassù non ci sono molte casse integrazioni.
Come tanti paesi, Cerreto Alpi è rimasto in un’altra epoca?
Non c’è dubbio. Però se continui a portare sempre i soliti pantaloni a campana, quando tornano di moda sei all’avanguardia.
Siete da sempre in lockdown. Tempo lento, pochi assembramenti…
Di fronte a tanto dolore è vergognoso dire che qui è una specie di paradiso terrestre. È che si intravede l’angelo che si sta posizionando sulla porta….
Vive con uno zio di 94 anni e ha un cugino di 86 in casa di riposo. Ha paura?
Sono il loro parente più prossimo. Per mio cugino lo ero perché è morto qualche giorno fa.

Mi dispiace…

Quanto a me, non ho paura di ammalarmi o morire. La vita è così: dentro la disgrazia c’è la grazia e la grazia contiene la disgrazia. Mi sono già trovato, in ospedale, insicuro del risveglio. Con la paura della morte è meglio cominciare a fare i conti da adolescenti. Certo, per far tesoro della disgrazia bisogna che da qualche parte ci sia la grazia.
Dopo saremo migliori?
Non vedo in forza di cosa. Ci sono buone possibilità del contrario.
Qualcuno ha fatto il confronto con l’11 settembre.
Il terrorismo internazionale ha prodotto una crisi estrema, ma lo conoscevamo. La storia dell’umanità è costellata da violenza e guerre. Il virus mina l’economia, la politica, la religiosità, il costume. L’immaginario. Credevamo di aver debellato il male ma risultiamo vulnerabili.
Lo spot di una casa automobilistica tedesca dice: «Il momento giusto per ogni cosa? È quando decidi di viverlo».
È proprio questo «deciderlo tu» che è crollato.
Lo sconcerto è che non ci sia il vaccino.
Possiamo credere che ci sarà, non che sconfitto un virus non ne arrivi un altro.
Il video intitolato Ora si pronuncia con la «o» stretta o larga?
Avverbio di tempo o voce del verbo orare? Decida lei.
Dice che siamo «connessi, tracciabili, asettici»: che cosa la inquieta?
Questa forma di tecnodipendenza. Per richiedere il sussidio di 600 euro bisogna connettersi. Per mandare i figli a scuola serve un computer, un allacciamento e una buona connessione. Persino per la messa serve un pc o uno schermo… rito o spettacolo?
La tecnologia non fornisce soluzioni?
È la soluzione il nostro problema.
La tecnologia è il problema?
Ne abbiamo una visione teologica. È il nuovo idolo. Ci affidiamo a lei come ci si affidava ai miracoli. Mi auguro funzioni come a volte funzionavano i miracoli. Però ammettiamo di essere nel campo della teologia.
Nel video dice «comunichiamo solitudini moleste e sovraesposte». Siamo soli davanti a uno schermo?
Lo inseguivamo da molto e finalmente il regno delle solitudini si è materializzato. Connessi, nelle proprie case, cittadini singoli, liberi in libero Stato nel libero mondo. Dovremmo essere contenti, no? Nell’ultimo secolo abbiamo cancellato famiglie, comunità, piccole patrie, corpi intermedi e i doveri che derivano dalla vita comune e reale, non virtuale. Ho ben presenti difetti e orrori della famiglia e della società tradizionale. Ma conosco altrettanto bene l’orrore e la solitudine esistenziale nella quale ci siamo infilati.
Nelle prime c’era una legge morale da seguire, nella seconda c’è il nichilismo?
È stata cancellata la dimensione naturale e cosmica dell’uomo. Il quale s’illude di essere ciò che decide, come diceva quello spot. Uno che non decide nemmeno di venire al mondo, di esserci.
Questa pandemia porterà un po’ di umiltà?
Non vedo perché questo morbo debba essere così benefico. Non c’era bisogno del virus, abbiamo appena avuto terremoti distruttivi, muoiono comunque persone care, la malattia e il dolore c’erano anche prima del coronavirus.
Tornando al video la si sente dire: «Tutti da Fabio Fazio la domenica sera». Che cosa non le piace?
Il Papa che cita Fazio l’ho trovato imbarazzante. Si reggono cose tremende poi un’inezia ti distrugge.
Le chiese chiuse le sopporta?
Si riaprono le librerie perché allietano l’anima, ma le chiese ben chiuse che l’inquietano.
A Cerreto Alpi c’era pericolo di assembramenti?
Si agisce per ideologia, senza una visione materiale della quotidianità. Qui non è cambiato nulla col virus. Le novità sono la chiesa e il cimitero chiusi. Il problema non doveva nemmeno porsi. A messa la domenica siamo una decina. Nel cimitero, all’aperto, due o tre volte l’anno vedo un’altra persona a 50 metri.
Contesta l’acquiescenza delle gerarchie ecclesiastiche?
L’acquiescenza preventiva, chiusa prima la chiesa del bar.
L’acquiescenza delle gerarchie e l’invadenza dello Stato?
Lo Stato contro il diritto naturale. In Veneto hanno dato il permesso di mangiare in giardino, capisce? Si possono portare fuori i cani, ma non con tutte le precauzioni i bambini?
La sua conclusione è il benedettino ora et labora?
Senza orare né laborare? Non mi si dica che la preghiera è libera nell’anima, quello è nell’ordine dei sentimenti e nessuno può impedirlo. La preghiera è soprattutto liturgia e se impedisci di lavorare impedisci il pane quotidiano. La metà del genere umano si guadagna il pane in modi non sindacalizzabili e gestibili dall’alto. Illegale? In queste montagne non ci sono cassa integrazione e sussidi statali.
Si sente fuori dal mondo?
Al contrario, sono al centro del mondo. Nel posto in cui sono stato desiderato e amato, nella casa della mia famiglia, tra la mia chiesa e il mio cimitero, al cospetto della creazione.
C’è un gesto o un’immagine che le è rimasto in mente di questo periodo?
Due immagini. La prima me l’ha mostrata la filmaker che lavora con me. È una foto dalla Mongolia: un drappello medico militare dell’esercito cinese a cavallo, tanto utile a contenere che ad allargare il contagio. La Cina è l’impero di mezzo, e muove. L’altra immagine è la prima liturgia in piazza San Pietro deserta, il Papa senza curia, Urbi et orbi. Bellezza e timore. Prescindo da valutazioni positive o negative, la Cina e la Santa sede sono i soli due soggetti politico sociali presenti in questa situazione. Tutto il resto è silente, litigioso e insignificante, o non pervenuto.
A cosa sta lavorando?
Il 29 febbraio ho consegnato a Mondadori un nuovo libro, dieci anni di riflessioni, chiuso il conto con il tempo di prima. Sto lavorando ad un nuovo video canzone: Ora II.
Come sarà la nuova normalità?
Quando finirà questa sospensione non sarà possibile tornare a prima, è un tempo sconosciuto.

 


http://cavevisioni.it/riaperto-le-librerie-delle-chiese/

venerdì 20 novembre 2020

Il Pedante: Pandemia di legge

 Occupandomi mesi fa di «lockdown», osservavo che nessun problema vero o presunto, semplice o difficile, sanitario o non sanitario, individuale o collettivo, può risolversi privandosi delle risorse necessarie alla sua soluzione. Rimarcavo allora, tra le altre cose, che per proteggere una comunità a rischio occorre mettere chi non è a rischio nella condizione di rendere effettiva quella tutela. Il caso di oggi non smentisce la regola e anzi la conferma a corollario di una più ampia legge naturale: se i più fragili sono esposti a un certo pericolo, la popolazione restante è chiamata ad attivarsi affinché godano di cure, protezione, reddito, supporto fisico e morale. Non a disattivarsi come predica la logica del «lockdown», che nel minare la capacità produttiva e la serenità di chi dovrebbe farsi carico dei vulnerabili, estende la vulnerabilità a tutti, moltiplica la quantità e la qualità del pericolo e rende impossibile la reazione.

Dopo avere scritto queste cose tutto sommato scontate, constatavo che la consapevolezza della contraddizione era ben più estesa di quanto immaginassi. A parte i pochi «esperti» che riuscivano a portarla sugli schermi televisivi, sempre più persone misuravano la sproporzione tra i danni anche ufficialmente circoscritti del problema e quelli invece universali della sua «medicina». Con il ritorno delle chiusure autunnali, grandi folle occupavano le piazze italiane per rivendicare il diritto di vivere del proprio lavoro e contribuire così al benessere, e perciò anche alla salute, della propria comunità. Non si trattava di posizioni eretiche o - qualunque cosa significhi - «negazioniste», se è vero che il 9 ottobre uno degli inviati speciali dell’OMS per l'emergenza Covid-19, David Nabarro, dichiarava in un videocast della rivista Spectator che

noi dell'OMS non invochiamo i lockdown come mezzo principale per controllare questo virus. L'unica situazione in cui riteniamo che un lockdown sia giustificato è quella in cui si deve guadagnare tempo per riorganizzarsi [...] ma, in generale, non lo raccomandiamo. [...] Guardate ciò che sta accadendo ai livelli di povertà. Entro il prossimo anno la povertà nel mondo potrebbe raddoppiare. [...] È una catastrofe globale terribile e spaventosa, quindi ci appelliamo con forza ai leader mondiali: smettete di utilizzare i lockdown come principale metodo di controllo. Sviluppate sistemi migliori per farlo. Lavorate assieme, imparate l'uno dall'altro, ma ricordate: i lockdown hanno una sola conseguenza, che non dovete assolutamente trascurare, che è quella di rendere le persone povere terribilmente più povere.

Lì il dott. Nabarro non citava nemmeno la malattia Covid-19, «una malattia normale» (così il dott. Roberto Bernabei, membro del CTS del Governo) che colpendo in modo grave quasi solo persone in età non più lavorativa non potrebbe neanche avvicinarsi all'obiettivo monstre di raddoppiare la povertà nel mondo. La «catastrofe globale terribile e spaventosa» era invece quella del suo presunto rimedio, già annunciata in aprile dal Programma alimentare mondiale dell'ONU, secondo il quale le centinaia di milioni di persone afflitte dalla fame sarebbero raddoppiate a causa dei «lockdown», e patita in modo esemplare anche da una nazione sviluppata come l'Argentina, ridotta in miseria dopo otto mesi di ininterrotta chiusura e ciò nondimeno... di ininterrotta crescita dei contagi.

Dei tanti modi in cui i «lockdown» erodono gratuitamente la salute di tutti, quello economico è solo il più evidente. Con la disoccupazione, i fallimenti, l'impoverimento e la precarietà non si deteriora solo il benessere fisico e psichico dei singoli, ma anche la ricchezza erariale di tutti e quindi la possibilità di godere di servizi pubblici anche sanitari, il cui «affanno» presente non potrà dunque che aggravarsi per la carenza di risorse fiscali da destinare a personale, macchinari, farmaci e strutture. A questa parte emersa del problema deve aggiungersi quella più profonda del disagio cagionato dall'incertezza del futuro, della paura delle sanzioni, della reclusione in casa (che, avverte lo stesso Bernabei, «ammazza come il virus»), dell'isolamento dei più fragili e del timore di sottoporsi a prestazioni sanitarie anche per malattie ben più letali come quelle oncologiche, i cui screening sarebbero già calati di quasi un milione e mezzo di unità nella prima metà dell'anno. Manca poi la parte più preoccupante perché di lungo effetto, quella a carico di bambini e ragazzi, che senza dover temere la nuova malattia ne trangugiano più di chiunque altro il preteso farmaco: con la segregazione, la separazione dai coetanei, la mancata attività fisica all'aperto, l'indebolimento delle figure genitoriali, lo scadimento dell'istruzione e l'abbandono scolastico, l'alienazione della didattica a distanza e la dipendenza informatica. Le ferite inflitte ai più giovani si cronicizzano e si trasmettono alle generazioni future. In un’indagine condotta la scorsa primavera dall’ospedale pediatrico Gaslini sono state riscontrate «problematiche comportamentali e sintomi di regressione» in circa 2 minori su 3, mentre la malattia che dovrebbe giustificare questa sofferenza ne ha sinora colpiti in modo sintomatico pochi su 1000.[1]

Adottando qualsiasi definizione di salute, non c'è dubbio che il «lockdown» sia oggi in sé un agente patogeno di portata pandemica in grado di produrre un vasto spettro di sindromi e complicanze, anche fatali. Sarebbe perciò urgente condurre studi epidemiologici sul suo impatto nelle popolazioni coinvolte, come si è già fatto in passato trattando gli effetti dell'austerità fiscale. Nelle more di siffatte indagini, si possono utilizzare le esperienze e i dati disponibili per abbozzare un confronto tra il patogeno «lockdown» (L) e quello virale (C) di cui L vorrebbe essere l'antidoto.[2] In quanto a morbosità, C produce sintomi in meno dell'1% della popolazione italiana[3] e dall'inizio dell'epidemia ne ha colpito in modo severo o critico lo 0,1%,[4] mentre L sta colpendo tutti (100%). In quanto a patogenicità e letalità, C può scatenare una malattia respiratoria da lieve (36,5% dei casi) a grave (5,8%)[5] e non provoca la morte nel 97,8% dei contagiati con meno di 80 anni (99,1% in quelli con meno di 70),[6] mentre ad oggi sono stati confermati 174 casi di deceduti (lo 0,02% dei contagiati o, proiettati sui decessi totali, lo 0,13%) che non avevano già in corso patologie croniche o gravi.[7] L può innescare uno o più stati patologici invalidanti collegati alla privazione materiale, sociale e affettiva, alla sedentarietà, allo stress, ai conflitti e al limitato accesso ai servizi socio-sanitari, la cui potenziale letalità è documentata, ma non ancora quantificata nel caso. Inoltre, C uccide individui di età media pari all'aspettativa di vita nazionale («fucila i vecchi», cit. Bernabei), mentre L minaccia la vita in ogni fascia anagrafica, avendo ad oggi fatto triplicare la mortalità tra gli infartuati e i neonati e promettendo domani di fare dei decessi per tumore «la prossima pandemia». Infine, in quanto a impatto sociale, C impone maggiori cautele verso le fasce sensibili (terza e quarta età, immunodepressi, malati cronici ecc.) specialmente nelle zone più a rischio e un potenziamento dei servizi sanitari dedicati, mentre L reclama la chiusura di scuole, università, teatri, parchi, impianti sportivi ed esercizi commerciali, la repressione di alcuni diritti costituzionalmente ordinati, solitudine, disagi in tutta popolazione e una recessione economica di molti punti percentuali.

Gli indicatori epidemiologici disponibili e approssimabili per ordine di grandezza suggeriscono che il rischio sanitario rappresentato da L supera nettamente quello di C, sia per la numerosità e severità delle patologie collegate, sia per l'universalità dei soggetti che le esprimono, singolarmente o in comorbidità. Per questi motivi, pur restando da verificare la maggiore letalità dei suoi singoli effetti, è plausibile se non proprio certo – stando ai riportati allarmi degli esperti sanitari e internazionali - che esso sia destinato a esprimere una mortalità globalmente molto più elevata. Va perciò accettata l'ipotesi che le sindromi da «lockdown» rappresentino l'evento patologico nuovo più importante, ancorché negletto, che minaccia oggi il benessere e la vita delle popolazioni del mondo. Che, in breve, la prima epidemia di cui occorre preoccuparsi sia quella diffusa dalla pratica dei «lockdown», tanto più incomprensibile non solo in quanto sembra piuttosto lontana dal mantenere gli effetti contenitivi che promette,[8] ma più ancora perché prodotta - questa volta per davvero, senza immaginare complotti - in laboratorio, disegnata ad arte dagli uomini, codificata minuziosamente nelle leggi e inflitta ai cittadini con la forza pubblica, affinché non si attivino gli anticorpi del lavoro, della socialità e della critica. Invece di fermarla, l’epidemia artificiale così allestita ha surclassato la sua antagonista naturale in ogni dimensione possibile e se ne è fatta scudo per aggiungere al danno contenibile e contenuto del virus l’incontenibile danno della propria furia, e infilare l’umanità in un circolo di distruzione che la natura, da sola, non avrebbe mai potuto realizzare.


* Questo articolo è apparso in forma riadattata sul numero de La Verità del 15 novembre 2020. In quella sede, per un disguido redazionale, sono state pubblicate alcune elaborazioni numeriche provvisorie. Il testo che segue e le note esplicative rettificano e integrano quanto pubblicato sulla versione a stampa.

Note
  1. Cfr. P. Poletti et al., Probability of symptoms and critical disease after SARS-CoV-2 infection e nota 2, fonte 2), pag. 21. Su un campione di 304 soggetti positivi tra 0 e 19 anni, il 18,09% ha riportato sintomi. I sintomatici cumulati nella fascia d'età sarebbero quindi (18,09% * casi) = (18,09%*102.419) = 18.528, che rappresentano sulla popolazione 0-19 anni il (18.528/10.720.000) = 1,73‰.
  2. I dati riportati nel seguito sono tratti dalle pagine web dell'Istituto Superiore di Sanità consultate in data 15 novembre 2020: 1) infografica Dati della Sorveglianza integrata COVID-19 in Italia. Dati cumulativi; 2) report Epidemia COVID-19. Aggiornamento nazionale 7 novembre 2020 –ore 11:00; 3) infografica Caratteristiche dei pazienti deceduti positivi all’infezione da SARS-CoV-2 in Italia. Dati al 11 novembre 2020. È bene ricordare che i numeri assoluti degli asintomatici sono certamente sottostimati (più difficilmente quelli dei sintomatici, soprattutto se gravi).
  3. Cfr. nota 2, fonte 2), pag. 22. I contagiati sintomatici sono (pauci + lievi + severi + critici) = 46.110 + 94.295 + 19.261 + 3.125 = 162.791, su un campione analizzato di 384.531 contagiati (74,6% dei 515.522 casi confermati). La stima per proiezione risulta come (sintomatici/74,6%) / (popolazione italiana) = (218.246/60.360.000) = 0,36%.
  4. Cfr. nota 3. L'incidenza dei casi severi e critici (19.261 + 3.125) sul campione ad oggi analizzato (384.531) è del 5,82%. La proiezione sui casi totali dall'inizio (1.070.524), pari a (1.070.524 * 5,82%) = 62.322, ammonta al (62.322 / 60.360.000) = 0,10% della popolazione.
  5. Cfr. nota 3. Lievi = (pauci + lievi) / (casi confermati) = (46.110 + 94.295)/384.531. Gravi = (severi + critici) / (casi confermati) = (19.261 + 3.125)/384.531.
  6. Cfr. nota 2, fonte 2), pag. 21. La non letalità è (1 - letalità).
  7. Cfr. nota 2, fonte 3), su un totale di 1.070.524 casi dall'inizio. Le cartelle cliniche sinora analizzate sono 5.234 (il 12,85%). La proiezione dei deceduti senza altre patologie ammonterebbe a (174/12,85%) = 1.354 unità.
  8. Il caso unico in Europa del governo svedese, che ha scelto di non istituire «lockdown», è stato spesso criticato in quanto non ha conseguito l'obiettivo auspicato da alcuni di rendere immune la popolazione. Il fatto che la Svezia si collochi ciò nondimeno nella media europea per incidenza dei contagi dovrebbe però bastare per mettere seriamente in discussione l'efficacia profilattica delle chiusure. All'opposto, la citata Argentina è il paese che ha praticato il «lockdown» più di tutti e più a lungo di tutti e, insieme, il quarto al mondo per incidenza di decessi e settimo per incidenza di casi. Gli autori del più ampio studio globale finora condotto sul tema, pubblicato sulla rivista Lancet nell'agosto di quest'anno, hanno concluso che «le rapide chiusure dei confini, i lockdown totali e i test di massa non sono correlati al tasso di mortalità per Covid-19» (per altre ricerche sulla mancata correlazione tra chiusure e incidenza di morti e contagi, cfr. qui e qui).
    https://sinistrainrete.info 
    http://ilpedante.org/post/pandemia-di-legge#fnref:8 

martedì 17 novembre 2020

Le drammatiche parole di Benedetto XVI


A maggio ci furono polemiche per le anticipazioni di alcune dichiarazioni fatte da Benedetto XVI a Peter Seewald e pubblicate nella sua biografia che stava per uscire in Germania. Adesso quest’opera è tradotta in Italia col titolo Benedetto XVI. Una vita” (Garzanti), dunque si ha la possibilità di comprendere meglio le parole del papa.

La domanda cruciale di Seewald a Ratzinger è questa: Una frase della sua prima omelia come pontefice è rimasta particolarmente impressa nella memoria: ‘Pregate per me, perché io non fugga, per paura, davanti ai lupi’. Aveva forse previsto quello che la aspettava?”.

Il papa risponde che non c’era l’allusione ai problemi del Vaticano (tipo Vatileaks), come molti hanno pensato.

La vera minaccia per la Chiesa, e quindi per il servizio petrino” spiega Benedetto XVI non viene da questo genere di episodi: viene invece dalla dittatura universale di ideologie apparentemente umanistiche, contraddire le quali comporta l’esclusione dal consenso di base della società. Cento anni fa chiunque avrebbe ritenuto assurdo parlare di matrimonio omosessuale. Oggi coloro che vi si oppongono sono socialmente scomunicati. Lo stesso vale per l’aborto e la produzione di esseri umani in laboratorio. La società moderna intende formulare un credo anticristiano: chi lo contesta viene punito con la scomunica sociale. Avere paura di questo potere spirituale dell’Anticristo è fin troppo naturale e occorre davvero che le preghiere di intere diocesi e della Chiesa mondiale vengano in soccorso per resistervi”.

I media hanno semplificato tutto in modo superficiale scatenando la polemica su quegli esempi. Ma non è lì il centro del ragionamento di Benedetto XVI, che ha ben altro respiro. Egli parla della minaccia”rappresentata “dalla dittatura universale di ideologie apparentemente umanistiche”.

Qui è il punto. Che un uomo di grande cultura, di profonda spiritualità e di riconosciuta autorevolezza, parli della “minaccia” di una “dittatura universale” non può lasciare indifferenti.

Si può obiettare, ma questo tema è emerso pure nel dibattito pubblico. Anche intellettuali laici si sono mostrati preoccupati per l’evidente imporsi di un pensiero unico” e addirittura Micromega” ha puntato l’indice contro la nuova stagione di eccessi che l’ideologia del politically correct sta vivendo e che ha condotto alla riscoperta ‘progressista’ della censura”.

Non solo. Autorevoli pensatori – come Giorgio Agamben – in questi mesi hanno lanciato l’allarme per “lo stato d’eccezione” durante “l’emergenza sanitaria”, ma più in generale per la politica che diviene biopolitica.

Pure un intellettuale laico (francese) lontano dal pensiero di Ratzinger, come Michel Onfray, ha pubblicato il libro Teoria della dittatura”, dove addirittura vede all’orizzonte un nuovo tipo di totalitarismo”. Dunque il tema esiste.

Ratzinger parla della “dittatura di ideologie apparentemente umanistiche” e aggiunge che la società moderna intende formulare un credo anticristiano” e che avere paura di questo potere spirituale dell’Anticristo è fin troppo naturale”.

Qui la riflessione di Benedetto XVI incontra – per esempio – il pensiero di uno dei più grandi filosofi del nostro tempo: René Girard. Il quale, in effetti, usa le stesse categorie di Ratzinger nel libro Vedo Satana cadere come la folgore” (Adelphi) per riflettere sul presente. Anche lui intravede il nuovo totalitarismo”.

Girard spiega che il cristianesimo ha introdotto nel mondo la pietà per le vittime”. C’è oggi un  umanitarismo (Ratzinger parla di “ideologie apparentemente umanistiche”) che fa sua questa sensibilità, ma contro il cristianesimo: il movimento anticristiano più forte è quello che fa sua e ‘radicalizza’ la preoccupazione verso le vittime per paganizzarla… Il nuovo totalitarismo si presenta come liberatore dell’umanità”.

Anche Girard – come Ratzinger – chiama in causa la figura neotestamentaria dell’Anticristo, ovvero di colui che imita sempre meglio Cristo e pretende di superarlo”.

Tutto il Novecento è percorso da figure letterarie dell’Anticristo – da quello di Solovev a quello di Benson – come grande umanitario e filantropo, una “imitazione usurpatrice” del Redentore che ricorda l’affresco di Luca Signorelli.

L’Anticristo” scrive Girard “si vanta di recare agli uomini la pace e la tolleranza”, mentre “porta con sé l’effettivo ritorno a ogni sorta di abitudini pagane” (anche Girard, come Ratzinger, cita qui l’aborto e altre situazioni moderne).

In pratica Girard condivide con Ratzinger l’allarme per una modernità anticristiana che entrambi non esitano ad accostare alla figura apocalittica dell’Anticristo.

Considerazioni molto interessanti sull’Anticristo e la modernità sono state svolte anche da Mario Tronti e da Massimo Cacciari, in vari interventi e nel libro Il potere che frena” (Adelphi).

Sull’Anticristo ha scritto – da laico – pure Giorgio Agamben proprio in un libro dedicato alla rinuncia di Ratzinger: Il mistero del male. Benedetto XVI e la fine dei tempi”.

Appunto a questo libro fa riferimento un’altra domanda di Seewald al papa. Il biografo spiega che Agamben “si dice convinto del fatto che la vera ragione delle sue dimissioni (del pontefice, ndr) sia stata la volontà di risvegliare la coscienza escatologica. Nel piano divino della salvezza la Chiesa avrebbe anche la funzione di essere insieme ‘Chiesa di Cristo e Chiesa dell’Anticristo’. Le dimissioni sarebbero una prefigurazione della separazione tra ‘Babilonia’ e ‘Gerusalemme’ nella Chiesa”.

Agamben faceva riferimento a un antico saggio di Ratzinger su Ticonio. Il papa emerito non risponde direttamente, ma ricorda con Agostino che “molti sono parte della Chiesa in modo solo apparente, mentre in realtà vivono contro di essa” mentre “al di fuori della Chiesa ci sono molti che – senza saperlo – appartengono profondamente al Signore e dunque anche al suo corpo, la Chiesa”.

Poi aggiunge: Sappiamo che nella storia ci sono momenti in cui la vittoria di Dio sulle forze del male è visibile in modo confortante e momenti in cui, invece, le forze del male oscurano tutto”.

Antonio Socci

https://www.antoniosocci.com/le-drammatiche-parole-di-benedetto-xvi-la-minaccia-viene-dalla-dittatura-universale-di-ideologie-apparentemente-umanistiche-aver-paura-di-questo-potere-spirituale-dellantic/ 



mercoledì 11 novembre 2020

Due voci fuori dal coro

 





Si è abolito l’amore

Si è abolito l’amore
in nome della salute
poi si abolirà la salute.

Si è abolita la libertà
in nome della medicina
poi si abolirà la medicina.

Si è abolito Dio
in nome della ragione
poi si abolirà la ragione.

Si è abolito l’uomo
in nome della vita
poi si abolirà la vita.

Si è abolita la verità
in nome dell’informazione
ma non si abolirà l’informazione.

Si è abolita la costituzione
in nome dell’emergenza
ma non si abolirà l’emergenza.
                                                Giorgio Agamben, 6 novembre 2020


martedì 3 novembre 2020

Giorgio Agamben: una voce


Alcuni dati

Secondo i comunicati ufficiali, i casi positivi di covid-19 in Italia al 28 ottobre sono in tutto 617.000, di cui guariti 279.000. I decessi sono 38.127 (la cifra si riferisce al numero dei positivi, indipendentemente dalla causa effettiva del decesso). I positivi sono nella grande maggioranza quelli che un tempo si definivano portatori sani (ora si chiamano curiosamente “malati non sintomatici”).
La popolazione italiana è 60.391.000. Nel 2017 sono morte in Italia 650.614 persone (nel 2019, 647.000). I decessi per malattie respiratorie nel 2017 sono stati 53.372. Quelli per malattie cardiovascolari 230.283 (dati ISTAT).
Secondo gli studi scientifici, l’IFR (Infection fatality rate, o tasso di mortalità) per il covid-19 è intorno allo 0,6 % (cfr. «Organisms, Journal of biological Sciences», vol. 4, n. 1, 2020, p. 6).
È sulla base di questi dati che le libertà costituzionali sono state sospese, la popolazione è stata terrorizzata, la vita sociale cancellata, la salute mentale e fisica degli uomini gravemente minacciata.


Il volto e la maschera

Quello che si chiama volto non può esistere in nessun animale
se non nell’uomo, ed esprime il carattere.
Cicerone

Tutti gli esseri viventi sono nell’aperto, si mostrano e comunicano gli uni agli altri, ma solo l’uomo ha un volto, solo l’uomo fa del suo apparire e del suo comunicarsi agli altri uomini la propria esperienza fondamentale, solo l’uomo fa del volto il luogo della propria verità.

Ciò che il volto espone e rivela non è qualcosa che possa essere detto in parole, formulato in questa o quella proposizione significante. Nel proprio volto l’uomo mette inconsapevolmente in gioco sé stesso, è nel volto, prima che nella parola, che egli si esprime e rivela. E quel che il volto esprime non è soltanto lo stato d’animo di un individuo, è innanzitutto la sua apertura, il suo esporsi e comunicarsi agli altri uomini.

Per questo il volto è il luogo della politica. Se non vi è una politica animale, ciò è soltanto perché gli animali, che sono già sempre nell’aperto, non fanno della loro esposizione un problema, dimorano semplicemente in essa senza curarsene. Per questo essi non s’interessano agli specchi, all’immagine in quanto immagine. L’uomo, invece, vuole riconoscersi e essere riconosciuto, vuole appropriarsi della propria immagine, cerca in essa la propria verità. In questo modo egli trasforma l’aperto in un mondo, nel campo di una incessante dialettica politica.

Se gli uomini avessero da comunicarsi sempre e soltanto delle informazioni, sempre questa o quella cosa, non vi sarebbe mai propriamente politica, ma unicamente scambio di messaggi. Ma poiché gli uomini hanno innanzitutto da comunicarsi la loro apertura, cioè una pura comunicabilità, il volto è la condizione stessa della politica, ciò in cui si fonda tutto ciò che gli uomini si dicono e scambiano. Il volto è in questo senso la vera città degli uomini, l’elemento politico per eccellenza. È guardandosi in faccia che gli uomini si riconoscono e si appassionano gli uni agli altri, percepiscono somiglianza e diversità, distanza e prossimità.

Un paese che decide di rinunciare al proprio volto, di coprire con maschere in ogni luogo i volti dei propri cittadini è, allora, un paese che ha cancellato da sé ogni dimensione politica. In questo spazio vuoto, sottoposto in ogni istante a un controllo senza limiti, si muovono ora individui isolati gli uni dagli altri, che hanno perduto il fondamento immediato e sensibile della loro comunità e possono solo scambiarsi messaggi diretti a un nome senza più volto. A un nome senza più volto. 
 
 

Una domanda

La peste segnò per la città l’inizio della corruzione… Nessuno era più disposto a perseverare in quello che prima giudicava essere il bene, perché credeva che poteva forse morire prima di raggiungerlo.
Tucidide, La guerra del Peloponneso, II, 53

Vorrei condividere con chi ne ha voglia una domanda su cui ormai da più di un mese non cesso di riflettere. Com’è potuto avvenire che un intero paese sia senza accorgersene eticamente e politicamente crollato di fronte a una malattia? Le parole che ho usato per formulare questa domanda sono state una per una attentamente valutate. La misura dell’abdicazione ai propri principi etici e politici è, infatti, molto semplice: si tratta di chiedersi qual è il limite oltre il quale non si è disposti a rinunciarvi. Credo che il lettore che si darà la pena di considerare i punti che seguono non potrà non convenire che – senza accorgersene o fingendo di non accorgersene – la soglia che separa l’umanità dalla barbarie è stata oltrepassata.
1) Il primo punto, forse il più grave, concerne i corpi delle persone morte. Come abbiamo potuto accettare, soltanto in nome di un rischio che non era possibile precisare, che le persone che ci sono care e degli esseri umani in generale non soltanto morissero da soli, ma che – cosa che non era mai avvenuta prima nella storia, da Antigone a oggi – che i loro cadaveri fossero bruciati senza un funerale?
2) Abbiamo poi accettato senza farci troppi problemi, soltanto in nome di un rischio che non era possibile precisare, di limitare in misura che non era mai avvenuta prima nella storia del paese, nemmeno durante le due guerre mondiali (il coprifuoco durante la guerra era limitato a certe ore) la nostra libertà di movimento. Abbiamo conseguentemente accettato, soltanto in nome di un rischio che non era possibile precisare, di sospendere di fatto i nostri rapporti di amicizia e di amore, perché il nostro prossimo era diventato una possibile fonte di contagio.
3) Questo è potuto avvenire – e qui si tocca la radice del fenomeno – perché abbiamo scisso l’unità della nostra esperienza vitale, che è sempre inseparabilmente insieme corporea e spirituale, in una entità puramente biologica da una parte e in una vita affettiva e culturale dall’altra. Ivan Illich ha mostrato, e David Cayley l’ha qui ricordato di recente, le responsabilità della medicina moderna in questa scissione, che viene data per scontata e che è invece la più grande delle astrazioni. So bene che questa astrazione è stata realizzata dalla scienza moderna attraverso i dispositivi di rianimazione, che possono mantenere un corpo in uno stato di pura vita vegetativa.
Ma se questa condizione si estende al di là dei confini spaziali e temporali che le sono propri, come si sta cercando oggi di fare, e diventa una sorta di principio di comportamento sociale, si cade in contraddizioni da cui non vi è via di uscita.
So che qualcuno si affretterà a rispondere che si tratta di una condizione limitata del tempo, passata la quale tutto ritornerà come prima. È davvero singolare che lo si possa ripetere se non in mala fede, dal momento che le stesse autorità che hanno proclamato l’emergenza non cessano di ricordarci che quando l’emergenza sarà superata, si dovrà continuare a osservare le stesse direttive e che il “distanziamento sociale”, come lo si è chiamato con un significativo eufemismo, sarà il nuovo principio di organizzazione della società. E, in ogni caso, ciò che, in buona o mala fede, si è accettato di subire non potrà essere cancellato.

Non posso, a questo punto, poiché ho accusato le responsabilità di ciascuno di noi, non menzionare le ancora più gravi responsabilità di coloro che avrebbero avuto il compito di vegliare sulla dignità dell’uomo. Innanzitutto la Chiesa, che, facendosi ancella della scienza, che è ormai diventata la vera religione del nostro tempo, ha radicalmente rinnegato i suoi principi più essenziali. La Chiesa, sotto un Papa che si chiama Francesco, ha dimenticato che Francesco abbracciava i lebbrosi. Ha dimenticato che una delle opere della misericordia è quella di visitare gli ammalati. Ha dimenticato che i martiri insegnano che si deve essere disposti a sacrificare la vita piuttosto che la fede e che rinunciare al proprio prossimo significa rinunciare alla fede. Un’altra categoria che è venuta meno ai propri compiti è quella dei giuristi. Siamo da tempo abituati all’uso sconsiderato dei decreti di urgenza attraverso i quali di fatto il potere esecutivo si sostituisce a quello legislativo, abolendo quel principio della separazione dei poteri che definisce la democrazia. Ma in questo caso ogni limite è stato superato, e si ha l’impressione che le parole del primo ministro e del capo della protezione civile abbiano, come si diceva per quelle del Führer, immediatamente valore di legge. E non si vede come, esaurito il limite di validità temporale dei decreti di urgenza, le limitazioni della libertà potranno essere, come si annuncia, mantenute. Con quali dispositivi giuridici? Con uno stato di eccezione permanente? È compito dei giuristi verificare che le regole della costituzione siano rispettate, ma i giuristi tacciono. Quare silete iuristae in munere vestro?

So che ci sarà immancabilmente qualcuno che risponderà che il pur grave sacrificio è stato fatto in nome di principi morali. A costoro vorrei ricordare che Eichmann, apparentemente in buon fede, non si stancava di ripetere che aveva fatto quello che aveva fatto secondo coscienza, per obbedire a quelli che riteneva essere i precetti della morale kantiana. Una norma, che affermi che si deve rinunciare al bene per salvare il bene, è altrettanto falsa e contraddittoria di quella che, per proteggere la libertà, impone di rinunciare alla libertà.
https://www.quodlibet.it/una-voce-giorgio-agamben





giovedì 30 luglio 2020

I 14 Quadri






Il tempo e lo spazio sono sempre stati argomenti ricorrenti nelle nostre chiacchierate telefoniche, niente di filosofico, non ne sono capace, ma tutto legato alla realtà e alle robuste radici che ci ancorano alla terra che ci è stato dato di abitare.
In questi ultimi mesi le cose sono cambiate inaspettate per tutti ed in un modo che sfugge alla effettiva comprensione di quello che sta succedendo.
Qualcosa di nuovo sta prendendo forma, un presente instabile e virtuale che ha la presunzione dell'essere eterno, sempre più controllato da un Potere tecnologico che lancia appelli ed offre benessere di difficile definizione. Una teologia tecnologica ha infettato la vita di ognuno di noi. Il futuro prepotentemente si sta facendo largo, disegnando scenari da films di fantascenza distopici. Secondo William Gibson, il futuro è già qui ma è distribuito male, per cui sta ad ognuno di noi, pur impreparati,  prenderne atto e dare vita alle proprie visioni. Non è tempo di conflitti ma di rappresentare le proprie visioni. Il tempo e lo spazio si ritraggono, il sistema è in decomposizione e non c'è una nuova arca.
La memoria è gestita da algoritmi e le radici sembrano anticaglie da antiquariato vintage, la religione in assenza di liturgia è moribonda ed i costumi, la lingua, le nostre usanze sono alla mercè di un idea dominante che tende a plasmarci in masse amorfe e ad individualizzarci in infinite solitudini. E' in atto uno scollamento nell'organizzazione sociale dove i soggetti sono utenti/clienti/consumatori, una massa di disperati e sdradicati anche essi fanno da agenti provocatori a loro insaputa. Sdradicare le persone dalla propria storia per farne individui intercambiabili in spazi virtuali ma connessi in fallace godimento immediato è il disegno. Satelliti che vagano in orbita solitari.
In questo scenario si innestano i 14 Quadri di Archiaro nel Tempo, opera compiuta di Tommaso Cosco. L'autore si presenta disegnando se stesso in 14 quadri/canti. Parlano di un uomo e della terra su cui vive che è parte di se stesso, parlano degli uomini che l'hanno abitata e di quelli che verranno. Nella forma sono dei quadri, per la fissità della scena dove si muovono in punta di piedi i pochi personaggi che li animano, nella sostanza sono dei canti. Pur utilizzando strumenti moderni per fissarli su un dispositivo elettronico, questi quadri si inseriscono nella tradizione orale dei canti, in un luogo percorso da sentieri disegnati dalle voci di chi ci ha preceduto. Per una epica della memoria.
La natura emette i suoi suoni e declama i propri versi che avvolgono gli attori in un climax unico, quì veramente si può parlare di tempo statico, immobile, senza durata. In queste 14 scene l'autore coniuga la storia con la geografia traendo dal passato il proprio senso di appartenenza e la propria identità, ci sussurra come in una nenia di non avere paura ed esplora temi propri di ogni essere umano e nel contempo profondamente personali. Raffigura l'uomo in un luogo particolare, quello dei propri avi dove si sono succedute generazioni passate, ed è tutto quello che ci rimane e che ci rappresenta, e se le radici sono ben salde in profondità ci salvano in questo sgretolamento quotidiano.
Son tempi strani questi, dove anche la famiglia viene messa in discussione, le comunità vengono ridisegnate e determinate da interessi puramente economici e la socialità viene vista come una minaccia. Il vero artista deve farsi carico della mancanza e passare all’azione con i propri strumenti. ( ahh, quanto ci manca Pasolini! ).
Tommaso da forma alle proprie visioni e ci spinge a riflettere sull'umano e sull'eterno,
il luogo è la vita, scene di vita che ci mettono in condizione di scoprirne il senso. La vita va attraversata, per dirla alla Tarkovsky, e l'uomo, nel suo cammino, attraversandola si spezza o resiste e se resiste dipende dal sentimento verso la propria dignità, dalla capacità di distinguere l'essenziale dal transeunte.


https://youtu.be/fosLufrgLcw

http://www.archiaro.it/

lunedì 18 maggio 2020

Gli invisibili


Cattivo continuo ad esserlo per non diventare un animale domestico.


Solitudini obbligate e mal sopportate, giorni che nessuno mai ti potrà restituire di una primavera sottratta e subito soppiantata da una estate che si preannuncia torrida. La grande illusione di una società opulenta, ben attenta a non rivelare l'inganno di essere tutti al centro del nulla ma connessi in una apparente solidarietà, ha mostrato la fragilità di atomi scomposti che vagano senza identità svenduta al politicamente corretto . Non ci sono sguardi, cenni e sorrisi che danno valore e dignità allo scorrere del tempo. Tempo consumato, sconosciuto alla mitologia, spaesamento nel vago, pesante assenza di gravità se anche gli affetti sono negati, nutriti in streaming dove si sprecano baci, cuoricini e like. Uno schermo effetto neve rimanda la tua pena al domani successivo, c è poco tempo per rimettere insieme i frammenti del tuo essere. Gli esperti e le task force si rincorrono in opinioni divise e la scienza degli accademici non accetta ragioni.

Tempo sconosciuto, tempo consumato senza scadenze urgenti, oltre il tempo, riti ritrovati e rotte smarrite che, diradato il fumo soffocante di una accelerazione indotta da un motore fuori giri, riportano i racconti degli avi sotto forma di una nenia sussurrata, una memoria genetica conservata nei pertugi della mente che la scienza non può sopprimere come ha fatto con la realtà.



Libertà svuotate in cambio di promesse che assicurino una futura sicurezza, il complesso industriale tecnico scientifico, medico e militare opera a fin di bene regalando slogan consolanti di cui compiacersi per aver fatto il proprio dovere con grande senso di responsabilità. Tracce digitali come bave di lumache e scanner a raggi infrarossi vigilano affinché nessuno si faccia del male.
Dove il Tempo non ha più tempo.

Era così pieno il locale che non c’era posto per la mia voce.

Era impossibile afferrare un frammento di conversazione tanto il vocìo era continuo.

Mi limitai allora a guardare i volti degli astanti, a scrutare i vestiti che indossavano soffermandomi soprattutto sulle scarpe. La mia amica mi aveva avvisato, se vuoi capire una persona guarda che scarpe porta.



                       

Ian Curtis



  



R.I.P. Ian Curtis ( 15/07/1956 - 18/05/1980 )

venerdì 10 gennaio 2020

Sonata Arborea




Sonata Arborea é un progetto di musica ambient/world/neofolk dell'artista Domenico Canino. Tutti i brani dell'album "In Arborea Animae" sono stati scritti e composti con flauti KIOWA, costruiti a mano dal musicista.
Dal primo ascolto i suoni ti trasportano in territori liberati e creativi dove la coscienza fluttua su paesaggi che sentiamo animarsi dentro di noi, sospesi quasi avvolti e fusi nell’ambiente ben rappresentato dalla bella immagine di copertina, in un tempo senza durata. Paesaggi sonori che fanno un tutt'uno con l'universo circostante in cui niente è più separato. In ogni nota traspare tutto l'amore che Domenico Canino ha per il luogo in cui vive, ad Albi nella Sila Piccola, i suoni ti portano lungo i sentieri e nelle radure che all'improvviso si rivelano nel sole del mattino, c'è qualcosa di profondamente religioso in questo. Il genius loci celebra una cerimonia con suoni antichi di estatica bellezza e struggente malinconia.
Bruce Chatwin nel suo bel libro Le vie dei Canti scrive" Gli uomini del tempo antico percorsero tutto il mondo cantando....in ogni punto delle loro piste lasciavano una scia di musica. avvolsero il mondo intero in una rete di canto e infine quando ebbero cantato la terra si sentirono stanchi.... alcuni tornarono alle loro "dimore eterne"che li avevano generati. Tutti tornarono "dentro" ".
Molti musicisti ambient utilizzano rituali o installazioni o vere e proprie strutture, mi viene in mente il Kiva di Steve Roach, come una metafora per costruire la musica dentro di se, allo stesso modo Domenico Canino ci offre uno strumento ed un mezzo per tornare dentro di noi, percorrere e addentrarsi oltre, altrove, nell'inesplorato spazio interno. Durante l'ascolto dei 6 brani lo spazio ed il tempo, regolato dagli orologi, appaiono solo ciò che sono: delle mere costruzioni mentali.
Musiche possibili dalla Sila Piccola, musiche dall' inner space, suoni infiniti, evocativi che inducono alla meditazione e che esprimono il desiderio sincero dell'artista di cogliere l'essenza della cultura della sua terra. "In Arborea Animae" rimanda al detto antico che dice che l'anima vive in un mondo di suoni, vive nel mondo dell'armonia delle sfere. Una musica intima, interiore, capace di produrre sentimenti, emozioni e immaginazioni di altri modi di vivere. Nel suo significato più autentico, parafrasando i mistici sufi: "Solo il suono è libero dalla forma, solo il suono non fa apparire alcuno oggetto innanzi a noi"