Alcuni dati
Secondo i comunicati ufficiali,
i casi positivi di covid-19 in Italia al 28 ottobre sono in tutto
617.000, di cui guariti 279.000. I decessi sono 38.127 (la cifra si
riferisce al numero dei positivi, indipendentemente dalla causa
effettiva del decesso). I positivi sono nella grande maggioranza quelli
che un tempo si definivano portatori sani (ora si chiamano curiosamente
“malati non sintomatici”).
La popolazione italiana è 60.391.000. Nel 2017 sono morte in Italia
650.614 persone (nel 2019, 647.000). I decessi per malattie respiratorie
nel 2017
sono stati 53.372. Quelli per malattie cardiovascolari 230.283 (dati
ISTAT).
Secondo gli studi scientifici, l’IFR (Infection fatality rate, o tasso di mortalità) per il covid-19 è intorno allo
0,6 % (cfr. «Organisms, Journal of biological Sciences», vol. 4, n. 1, 2020, p. 6).
È sulla base di questi dati che
le libertà costituzionali sono state sospese, la popolazione è stata
terrorizzata, la vita sociale cancellata, la salute mentale e fisica
degli uomini gravemente minacciata.
Il volto e la maschera
se non nell’uomo, ed esprime il carattere.
Cicerone
Tutti gli esseri viventi sono nell’aperto, si mostrano e comunicano gli uni agli altri, ma solo l’uomo ha un volto, solo l’uomo fa del suo apparire e del suo comunicarsi agli altri uomini la propria esperienza fondamentale, solo l’uomo fa del volto il luogo della propria verità.
Ciò che il volto espone e rivela non è qualcosa che possa essere detto in parole, formulato in questa o quella proposizione significante. Nel proprio volto l’uomo mette inconsapevolmente in gioco sé stesso, è nel volto, prima che nella parola, che egli si esprime e rivela. E quel che il volto esprime non è soltanto lo stato d’animo di un individuo, è innanzitutto la sua apertura, il suo esporsi e comunicarsi agli altri uomini.
Per questo il volto è il luogo della politica. Se non vi è una politica animale, ciò è soltanto perché gli animali, che sono già sempre nell’aperto, non fanno della loro esposizione un problema, dimorano semplicemente in essa senza curarsene. Per questo essi non s’interessano agli specchi, all’immagine in quanto immagine. L’uomo, invece, vuole riconoscersi e essere riconosciuto, vuole appropriarsi della propria immagine, cerca in essa la propria verità. In questo modo egli trasforma l’aperto in un mondo, nel campo di una incessante dialettica politica.
Se gli uomini avessero da comunicarsi sempre e soltanto delle informazioni, sempre questa o quella cosa, non vi sarebbe mai propriamente politica, ma unicamente scambio di messaggi. Ma poiché gli uomini hanno innanzitutto da comunicarsi la loro apertura, cioè una pura comunicabilità, il volto è la condizione stessa della politica, ciò in cui si fonda tutto ciò che gli uomini si dicono e scambiano. Il volto è in questo senso la vera città degli uomini, l’elemento politico per eccellenza. È guardandosi in faccia che gli uomini si riconoscono e si appassionano gli uni agli altri, percepiscono somiglianza e diversità, distanza e prossimità.
Un paese che decide di rinunciare al proprio volto, di coprire con maschere in ogni luogo i volti dei propri cittadini è, allora, un paese che ha cancellato da sé ogni dimensione politica. In questo spazio vuoto, sottoposto in ogni istante a un controllo senza limiti, si muovono ora individui isolati gli uni dagli altri, che hanno perduto il fondamento immediato e sensibile della loro comunità e possono solo scambiarsi messaggi diretti a un nome senza più volto. A un nome senza più volto.
Una domanda
Tucidide, La guerra del Peloponneso, II, 53
Vorrei condividere con chi ne ha voglia una domanda su cui ormai da
più di un mese non cesso di riflettere. Com’è potuto avvenire che un
intero paese sia senza accorgersene eticamente e politicamente crollato
di fronte a una malattia? Le parole che ho usato per formulare questa
domanda sono state una per una attentamente valutate. La misura
dell’abdicazione ai propri principi etici e politici è, infatti, molto
semplice: si tratta di chiedersi qual è il limite oltre il quale non si è
disposti a rinunciarvi. Credo che il lettore che si darà la pena di
considerare i punti che seguono non potrà non convenire che – senza
accorgersene o fingendo di non accorgersene – la soglia che separa
l’umanità dalla barbarie è stata oltrepassata.
1) Il primo punto, forse il più grave, concerne i corpi delle persone
morte. Come abbiamo potuto accettare, soltanto in nome di un rischio
che non era possibile precisare, che le persone che ci sono care e
degli esseri umani in generale non soltanto morissero da soli, ma che –
cosa che non era mai avvenuta prima nella storia, da Antigone a oggi –
che i loro cadaveri fossero bruciati senza un funerale?
2) Abbiamo poi accettato senza farci troppi problemi, soltanto in nome di un rischio
che non era possibile precisare, di limitare in misura che non era mai
avvenuta prima nella storia del paese, nemmeno durante le due guerre
mondiali (il coprifuoco durante la guerra era limitato a certe ore) la
nostra libertà di movimento. Abbiamo conseguentemente accettato,
soltanto in nome di un rischio che non era possibile precisare,
di sospendere di fatto i nostri rapporti di amicizia e di amore, perché
il nostro prossimo era diventato una possibile fonte di contagio.
3) Questo è potuto avvenire – e qui si tocca la radice del fenomeno –
perché abbiamo scisso l’unità della nostra esperienza vitale, che è
sempre inseparabilmente insieme corporea e spirituale, in una entità
puramente biologica da una parte e in una vita affettiva e culturale
dall’altra. Ivan Illich ha mostrato, e David Cayley l’ha qui ricordato
di recente, le responsabilità della medicina moderna in questa
scissione, che viene data per scontata e che è invece la più grande
delle astrazioni. So bene che questa astrazione è stata realizzata dalla
scienza moderna attraverso i dispositivi di rianimazione, che possono
mantenere un corpo in uno stato di pura vita vegetativa.
Ma se questa condizione si estende al di là dei confini spaziali e
temporali che le sono propri, come si sta cercando oggi di fare, e
diventa una sorta di principio di comportamento sociale, si cade in
contraddizioni da cui non vi è via di uscita.
So che qualcuno si affretterà a rispondere che si tratta di una
condizione limitata del tempo, passata la quale tutto ritornerà come
prima. È davvero singolare che lo si possa ripetere se non in mala fede,
dal momento che le stesse autorità che hanno proclamato l’emergenza non
cessano di ricordarci che quando l’emergenza sarà superata, si dovrà
continuare a osservare le stesse direttive e che il “distanziamento
sociale”, come lo si è chiamato con un significativo eufemismo, sarà il
nuovo principio di organizzazione della società. E, in ogni caso, ciò
che, in buona o mala fede, si è accettato di subire non potrà essere
cancellato.
Non posso, a questo punto, poiché ho accusato le responsabilità di
ciascuno di noi, non menzionare le ancora più gravi responsabilità di
coloro che avrebbero avuto il compito di vegliare sulla dignità
dell’uomo. Innanzitutto la Chiesa, che, facendosi ancella della scienza,
che è ormai diventata la vera religione del nostro tempo, ha
radicalmente rinnegato i suoi principi più essenziali. La Chiesa, sotto
un Papa che si chiama Francesco, ha dimenticato che Francesco
abbracciava i lebbrosi. Ha dimenticato che una delle opere della
misericordia è quella di visitare gli ammalati. Ha dimenticato che i
martiri insegnano che si deve essere disposti a sacrificare la vita
piuttosto che la fede e che rinunciare al proprio prossimo significa
rinunciare alla fede.
Un’altra categoria che è venuta meno ai propri compiti è quella dei
giuristi. Siamo da tempo abituati all’uso sconsiderato dei decreti di
urgenza attraverso i quali di fatto il potere esecutivo si sostituisce a
quello legislativo, abolendo quel principio della separazione dei
poteri che definisce la democrazia. Ma in questo caso ogni limite è
stato superato, e si ha l’impressione che le parole del primo ministro e
del capo della protezione civile abbiano, come si diceva per quelle del
Führer, immediatamente valore di legge. E non si vede come, esaurito il
limite di validità temporale dei decreti di urgenza, le limitazioni
della libertà potranno essere, come si annuncia, mantenute. Con quali
dispositivi giuridici? Con uno stato di eccezione permanente? È compito
dei giuristi verificare che le regole della costituzione siano
rispettate, ma i giuristi tacciono. Quare silete iuristae in munere vestro?
So che ci sarà immancabilmente qualcuno che risponderà che il pur
grave sacrificio è stato fatto in nome di principi morali. A costoro
vorrei ricordare che Eichmann, apparentemente in buon fede, non si
stancava di ripetere che aveva fatto quello che aveva fatto secondo
coscienza, per obbedire a quelli che riteneva essere i precetti della
morale kantiana. Una norma, che affermi che si deve rinunciare al bene
per salvare il bene, è altrettanto falsa e contraddittoria di quella
che, per proteggere la libertà, impone di rinunciare alla libertà.
https://www.quodlibet.it/una-voce-giorgio-agamben