Occupandomi mesi fa
di «lockdown», osservavo che nessun problema vero o presunto, semplice o
difficile, sanitario o non sanitario, individuale o collettivo, può
risolversi privandosi delle risorse necessarie alla sua soluzione.
Rimarcavo allora, tra le altre cose, che per proteggere una comunità a
rischio occorre mettere chi non è a rischio nella condizione di rendere
effettiva quella tutela. Il caso di oggi non smentisce la regola e anzi
la conferma a corollario di una più ampia legge naturale: se i più
fragili sono esposti a un certo pericolo, la popolazione restante è
chiamata ad attivarsi affinché godano di cure, protezione, reddito, supporto fisico e morale. Non a disattivarsi
come predica la logica del «lockdown», che nel minare la capacità
produttiva e la serenità di chi dovrebbe farsi carico dei vulnerabili,
estende la vulnerabilità a tutti, moltiplica la quantità e la qualità
del pericolo e rende impossibile la reazione.
Dopo avere scritto queste cose tutto sommato scontate, constatavo che
la consapevolezza della contraddizione era ben più estesa di quanto
immaginassi. A parte i pochi «esperti» che riuscivano a portarla sugli
schermi televisivi, sempre più persone misuravano la sproporzione tra i
danni anche ufficialmente circoscritti del problema e quelli invece
universali della sua «medicina». Con il ritorno delle chiusure
autunnali, grandi folle occupavano le piazze italiane per rivendicare il
diritto di vivere del proprio lavoro e contribuire così al benessere, e
perciò anche alla salute, della propria comunità. Non si trattava di
posizioni eretiche o - qualunque cosa significhi - «negazioniste», se è
vero che il 9 ottobre uno degli inviati speciali dell’OMS per
l'emergenza Covid-19, David Nabarro, dichiarava in un videocast della rivista Spectator che
noi dell'OMS non invochiamo i lockdown come mezzo principale per controllare questo virus.
L'unica situazione in cui riteniamo che un lockdown sia giustificato è
quella in cui si deve guadagnare tempo per riorganizzarsi [...] ma, in
generale, non lo raccomandiamo. [...] Guardate ciò che sta accadendo ai
livelli di povertà. Entro il prossimo anno la povertà nel mondo potrebbe
raddoppiare. [...] È una catastrofe globale terribile e spaventosa,
quindi ci appelliamo con forza ai leader mondiali: smettete di
utilizzare i lockdown come principale metodo di controllo. Sviluppate
sistemi migliori per farlo. Lavorate assieme, imparate l'uno dall'altro,
ma ricordate: i lockdown hanno una sola conseguenza, che non dovete
assolutamente trascurare, che è quella di rendere le persone povere
terribilmente più povere.
Lì il dott. Nabarro non citava nemmeno la malattia Covid-19, «una malattia normale» (così il dott. Roberto Bernabei,
membro del CTS del Governo) che colpendo in modo grave quasi solo
persone in età non più lavorativa non potrebbe neanche avvicinarsi
all'obiettivo monstre di raddoppiare la povertà nel mondo. La
«catastrofe globale terribile e spaventosa» era invece quella del suo
presunto rimedio, già annunciata in aprile
dal Programma alimentare mondiale dell'ONU, secondo il quale le
centinaia di milioni di persone afflitte dalla fame sarebbero
raddoppiate a causa dei «lockdown», e patita in modo esemplare anche da
una nazione sviluppata come l'Argentina, ridotta in miseria dopo otto mesi di ininterrotta chiusura e ciò nondimeno... di ininterrotta crescita dei contagi.
Dei tanti modi in cui i «lockdown» erodono gratuitamente la salute di
tutti, quello economico è solo il più evidente. Con la disoccupazione, i
fallimenti, l'impoverimento e la precarietà non si deteriora solo il
benessere fisico e psichico dei singoli, ma anche la ricchezza erariale
di tutti e quindi la possibilità di godere di servizi pubblici anche
sanitari, il cui «affanno» presente non potrà dunque che aggravarsi per
la carenza di risorse fiscali da destinare a personale, macchinari,
farmaci e strutture. A questa parte emersa del problema deve aggiungersi
quella più profonda del disagio cagionato dall'incertezza del futuro,
della paura delle sanzioni, della reclusione in casa (che, avverte lo
stesso Bernabei, «ammazza come il virus»), dell'isolamento
dei più fragili e del timore di sottoporsi a prestazioni sanitarie
anche per malattie ben più letali come quelle oncologiche, i cui
screening sarebbero già calati di quasi un milione e mezzo di unità
nella prima metà dell'anno. Manca poi la parte più preoccupante perché
di lungo effetto, quella a carico di bambini e ragazzi, che senza dover
temere la nuova malattia ne trangugiano più di chiunque altro il preteso
farmaco: con la segregazione, la separazione dai coetanei, la mancata
attività fisica all'aperto, l'indebolimento delle figure genitoriali, lo
scadimento dell'istruzione e l'abbandono scolastico, l'alienazione
della didattica a distanza e la dipendenza informatica. Le ferite
inflitte ai più giovani si cronicizzano e si trasmettono alle
generazioni future. In un’indagine condotta la scorsa primavera dall’ospedale pediatrico Gaslini sono
state riscontrate «problematiche comportamentali e sintomi di
regressione» in circa 2 minori su 3, mentre la malattia che dovrebbe
giustificare questa sofferenza ne ha sinora colpiti in modo sintomatico
pochi su 1000.[1]
Adottando qualsiasi definizione di salute, non c'è dubbio che il
«lockdown» sia oggi in sé un agente patogeno di portata pandemica in
grado di produrre un vasto spettro di sindromi e complicanze, anche
fatali. Sarebbe perciò urgente condurre studi epidemiologici sul suo
impatto nelle popolazioni coinvolte, come si è già fatto in passato
trattando gli effetti dell'austerità fiscale. Nelle more di siffatte
indagini, si possono utilizzare le esperienze e i dati disponibili per
abbozzare un confronto tra il patogeno «lockdown» (L) e quello virale (C) di cui L vorrebbe essere l'antidoto.[2] In quanto a morbosità, C produce sintomi in meno dell'1% della popolazione italiana[3] e dall'inizio dell'epidemia ne ha colpito in modo severo o critico lo 0,1%,[4] mentre L sta colpendo tutti (100%). In quanto a patogenicità e letalità, C può scatenare una malattia respiratoria da lieve (36,5% dei casi) a grave (5,8%)[5] e non provoca la morte nel 97,8% dei contagiati con meno di 80 anni (99,1% in quelli con meno di 70),[6]
mentre ad oggi sono stati confermati 174 casi di deceduti (lo 0,02% dei
contagiati o, proiettati sui decessi totali, lo 0,13%) che non avevano
già in corso patologie croniche o gravi.[7] L
può innescare uno o più stati patologici invalidanti collegati alla
privazione materiale, sociale e affettiva, alla sedentarietà, allo
stress, ai conflitti e al limitato accesso ai servizi socio-sanitari, la
cui potenziale letalità è documentata, ma non ancora quantificata nel
caso. Inoltre, C uccide individui di età media pari all'aspettativa di vita nazionale («fucila i vecchi», cit. Bernabei), mentre L minaccia la vita in ogni fascia anagrafica, avendo ad oggi fatto triplicare la mortalità tra gli infartuati e i neonati e promettendo domani di fare dei decessi per tumore «la prossima pandemia». Infine, in quanto a impatto sociale, C
impone maggiori cautele verso le fasce sensibili (terza e quarta età,
immunodepressi, malati cronici ecc.) specialmente nelle zone più a
rischio e un potenziamento dei servizi sanitari dedicati, mentre L
reclama la chiusura di scuole, università, teatri, parchi, impianti
sportivi ed esercizi commerciali, la repressione di alcuni diritti
costituzionalmente ordinati, solitudine, disagi in tutta popolazione e
una recessione economica di molti punti percentuali.
Gli indicatori epidemiologici disponibili e approssimabili per ordine
di grandezza suggeriscono che il rischio sanitario rappresentato da L supera nettamente quello di C,
sia per la numerosità e severità delle patologie collegate, sia per
l'universalità dei soggetti che le esprimono, singolarmente o in
comorbidità. Per questi motivi, pur restando da verificare la maggiore
letalità dei suoi singoli effetti, è plausibile se non proprio certo –
stando ai riportati allarmi degli esperti sanitari e internazionali -
che esso sia destinato a esprimere una mortalità globalmente molto più
elevata. Va perciò accettata l'ipotesi che le sindromi da «lockdown»
rappresentino l'evento patologico nuovo più importante, ancorché
negletto, che minaccia oggi il benessere e la vita delle popolazioni del
mondo. Che, in breve, la prima epidemia di cui occorre preoccuparsi sia quella diffusa dalla pratica dei «lockdown», tanto più incomprensibile non solo in quanto sembra piuttosto lontana dal mantenere gli effetti contenitivi che promette,[8]
ma più ancora perché prodotta - questa volta per davvero, senza
immaginare complotti - in laboratorio, disegnata ad arte dagli uomini,
codificata minuziosamente nelle leggi e inflitta ai cittadini con la
forza pubblica, affinché non si attivino gli anticorpi del lavoro, della
socialità e della critica. Invece di fermarla, l’epidemia artificiale
così allestita ha surclassato la sua antagonista naturale in ogni
dimensione possibile e se ne è fatta scudo per aggiungere al danno
contenibile e contenuto del virus l’incontenibile danno della propria
furia, e infilare l’umanità in un circolo di distruzione che la natura,
da sola, non avrebbe mai potuto realizzare.
* Questo articolo è apparso in forma riadattata sul numero de La Verità
del 15 novembre 2020. In quella sede, per un disguido redazionale, sono
state pubblicate alcune elaborazioni numeriche provvisorie. Il testo
che segue e le note esplicative rettificano e integrano quanto
pubblicato sulla versione a stampa.
Note