lunedì 27 giugno 2011

Archiaro: l'essenzialità dell'utopia






Foto di Tommaso Cosco


Il tempo liberato nella magia del quotidiano concorre a creare la consapevolezza del sé per salvare noi stessi dalla dannazione.
Don Chisciotte, come un guardiano tra le colline di Archiaro che lo sovrastano, con lo sguardo oltre l'orizzonte, se la ride in groppa a Ronzinante, per una volta asino senza soma, mentre Pinocchio interrato conserva gli occhi vispi ed il lungo naso sembra fare marameo al cielo. 
Semi piantati dagli avi e germogliati con le lacrime dei discendenti, frutti in macedonia e vino fruttato alle more che le api hanno provveduto ad impollinare, il vento si insinua e ti parla, accarezza ogni cosa e poi svanisce chissà dove, ti stringi in quello che sei diventato e la campana batte un altro colpo. 
Musica.....cercata e trovata......costrutti senza ritornello e melodie plasmate da vecchi catananni che raccontano della luce divina, per rendere l'oscurità meno buia.
La percezione di quello che accade ad Archiaro è apparentemente volatile, quasi inafferrabile, per cui ci si sorprende di noi stessi e della capacità di accogliere i diversi input. Pause necessarie inducono alla riflessione.
I personaggi, come usciti dai racconti di Bolano, si muovono sulla scena con gesti autentici, primitivi, finalmente liberi da costrizione. Ognuno di essi è ben disposto a cogliere la poesia e a farsene contagiare, a seconda della tenuta del proprio alibi.
Archiaro come nelle pagine di Garcia Marquez ma in una primavera senza fine e senza patriarchi, in una festa di campagna dove Pauline accompagna le danze con la sua fisarmonica e Danielle Huillet e Jean-Marie Straub filmano emozioni sospese, come rugiada che si dissolve e rivela.
Una goccia nella goccia.
Zolle di terra impastate, rimestate e pestate, pronte a farsi dio. Turra.
Prometeiche capre si avventurano agili sui dirupi in cerca di icone da strappare mentre drones monocromatici sibilano nel cuore della foresta che brucia.
Una nenia si insinua piano, sembra sul punto di spezzarsi tanta è l'emozione, ma si fa forza del dolore e riprende vigore e dona forza per richiudersi infine in un silenzio epifanico.

lunedì 20 giugno 2011

Contact: Director redux








Un viaggio nello spazio interiore, alla ricerca del " siamo mai stati? ".
L'artista cerca ed è portatore di un linguaggio in divenire, si muove in una sorta di terra di nessuno dove trovare la memoria di chi l'ha attraversata.
Elementi nascosti sotto una visibilità diversa e rimossi precedentemente diventano, ora, flusso corrente di visioni ed utopie che si realizzano nel momento stesso della creazione e che acquistano forma e sostanza grazie alla manipolazione e alla sensibilità plastica dell’artista. Manufatti artigianali e strumenti del passaggio verso una personale ricerca producono movimento e vertigine verso antropologie liberate dall'oblio.
Le immagini ora oniriche ora liquide e materiche si fondono con testi e musiche in un monolite che agisce come un semplice bioscanner che permette di scandagliare uno spazio unico fatto di ricordi, emozioni e inconscio.
Riprese video, performance, manipolazione plastica di colori e materie: Fedele Tocci
Musica: Gianfranco Candeliere ( Enfants Perdus, Sentimental Machines )
Engineering: Fabio Cesana ( Fabiuska Studio - Castrovillari )

mercoledì 8 giugno 2011

Tim Hecker - Ravedeath, 1972







Tim Hecker, con Ravedeath, 1972, compone un lavoro di tale intensità che finalmente il suo nome esce dal ristretto novero degli affezionati. Il musicista canadese trova  il suo paese immaginario nel fascino magmatico e magnetico dell'Islanda. Già prima di lui altri artisti si erano avventurati in queste terre con scenari da creazione del mondo in cerca di ispirazione, ma nessuno ha saputo tradurre in musica i caratteri più nascosti ed ancestrali di questa terra.
Ravedeath, 1972 rappresenta il lavoro noise-ambient più importante  di questi ultimi anni.
E' dal 2003 che la stampa specializzata guarda con particolare interesse al musicista canadese, da quando The Wire ha considerato Radio Amor uno dei migliori album dell'anno. Tim Hecker genera uno stream of consciousness manipolando il suono generato da chitarre, piano, synts e field recordings e portando l'ascoltatore a sorvolare territori fisici e psichici ancora inesplorati, abbandonandosi al vortice di correnti sinfoniche che alternano stati diversi di coscienza. Un pianoforte sospinto fuori, appena prima del lancio, è la foto rappresentata in copertina.
Hecker realizza il suo sesto album da solista intervenendo su registrazioni fatte con l'organo a canne di una chiesa di Reykjavík, catturate nel corso di una lunga session nel luglio 2010 dall'australiano, islandese d'adozione, Ben Frost e successivamente sottoposte a una riscrittura in studio.
Ravedeath, 1972 è concettualmente un'opera noise, anche se suona tale solo per pochi tratti, data la presenza di rimbombanti drones, che lasciano comunque trasparire i tocchi pianistici e le spirali ascendenti prodotti dalle tastiere. Questo disco deve molto ai corrieri cosmici tedeschi per la spiritualità, per il respiro trascendente che si respira nei suoi solchi e per le distese sinfoniche wagneriane.
I brani, anche dai titoli, esprimono sensazioni forti immersi in paesaggi ambient e sospesi dai tocchi di un pianismo romantico che si alterna con frammenti di rumore. I riverberi naturali della location fanno da preludio alla contemplazione del silenzio. Molto importante è stato il lavoro di engineering e mastering di Ben Frost.
I precedenti album del musicista canadese non mi avevano mai convinto pienamente, ma questo è sicuramente il suo disco più riuscito, un'opera completa che sa cogliere pienamente il segno dei tempi con un suono plastico che aiuta la mente a librarsi in voli estatici ed il cuore ad aprirsi verso paesaggi infiniti. Con Ravedeath, 1972 Tim Hecker diventa a ragione la punta di diamante della musica ambient contemporanea, un ambito che va oltre i tapes basinskiani e l'avant-garde fennesziana.